mercoledì 27 febbraio 2013

Monkey Island, l'eugenetica e l'apologia dell'errore

The Secret of Monkey Island (Lucas Arts, 1990)




Insomma, voglio farlo.
Voglio scrivere di Monkey Island. Che poi von Vergangenheit urla alla blasfemia, von Immer si offende perchè voleva farlo lui e von Fieber pensa che adesso la Sony controllerà il mondo e soprattutto i suoi soldi (li tiene sotto il cuscino, il volpone, e pensa sempre a loro, mica a Monkey Island).

Monkey Island. Perché questo è un periodo così, e mentre tutti sono tesi verso il futuro, con le elezioni e la nuova Playstation che von Fieber è preoccupatissimo, e il papa che chissà che fine farà, allora io, von Morgen, a dispetto del nome mi immergo nel passato, quel passato accogliente e consolatorio dove nessuno doveva faticare otto-nove-dieci ore al dì per potersi comprare un succo Billy. Non che al momento fatichi più di tanto (ma non posso comunque permettermi i succhi Billy), quindi a maggior ragione mi immergo. In Monkey Island. The Secret of.

Tutto chiaro, dall'inizio.
Monkey Island è gioco bellissimo, non come Pang, che piace a von Fieber che ancora dice che è il gioco più bello del mondo solo perchè è un pochino autistico e quando vede forme e geometrie regolari si eccita, ma bello perchè ancor bello, in maniera slegatissima dal contesto socio-psico-tecno-culturale di riferimento. Cioè, non è bello perché dici "all'epoca era un gran gioco", come, che ne so, Aztec Challenge, che ci giochi adesso ti fai due marons giganti. È bello perchè è un gran gioco, all'epoca, e anche adesso, e anche domani. Come Casablanca. Bello sempre, checché ne dica von Immer (che lui di cinema non capisce granchè). [Sei un cazzone. N.d.von Immer].
Mai superato il primo schema.
Perché è bello sempre? Perché Monkey Island, e qui parton le fregnacce, ci insegna a vivere la vita in maniera spensierata ma al tempo stesso attenta, con comicità bizzarra ma anche con la consapevolezza che le nostre azioni ci portano a salvare il mondo (almeno il nostro).

Il mondo si distingue in due categorie: quelli che ci hanno giocato, a Monkey Island, e quelli che no, non ci hanno giocato. Gengis Khan a Monkey Island non ci aveva giocato, e guarda un po' che rabbia repressa. Neanche il generale Custer, e vedi che fine ha fatto a Little Big Horn. Beppe Grillo? Neanche lui, perché all'epoca ancora spaccava i personal computer a martellate, lui che è di ampie vedute. Se parli con una persona che ci ha giocato, a Monkey Island, lo capisci subito, perché è una persona che se dici una cazzata quello ti capisce, non come il tabaccaio di Messina, vicino a via Boccetta, che non capisce mai quando scherzo e quando sono serio.

Lui avrebbe amato Monkey Island
Ecco, Monkey Island ti fa diventare una persona capace di ridere. E di capire. E magari di ridere senza capire. O di capire senza ridere, che forse è la cosa più importante, anche se più difficile. Senza dubbio, comunque, le persone che ci giocano sono persone migliori, non so se in conseguenza all'averci giocato, o perchè sono solo le persone migliori che ci giocano, ma secondo me la chiave dell'eugenetica è tutta in Monkey Island, altrochè fare esperimenti con i gemelli, caro il mio Dottor Mengele (che infatti non ci ha giocato mica, a Monkey Island).

Gioco formativo, si diceva. Perché Monkey Island premia lo sbaglio. Eggià. Provate voi a giocare a Monkey Island ben bene, andando sempre dove si deve andare, usando sempre quello che bisogna usare, parlando solo con chi bisogna parlare. Il gioco non rende.
Invece se iniziate a usare tutto con tutti, se andate in ogni dove, se esaminate ogni oggetto esaminabile, allora sì che il gioco regala il meglio di sè. 
L'apologia dell'errore. La struttura lineare del gioco è infatti spezzata unicamente dal nostro vagare, dalla curiosità di vedere cosa succede mischiando il pollo di gomma con i pezzi da otto ("non sembra funzionare"). Monkey Island è un gioco costituzionalmente incapace di raffronatarsi con il Power Playing competitivo, è un gioco in cui non si muore e in cui però si può interagire con un sacco di cose, perché interagire è di fatto capire. Anche se farlo con tutto quello che hai a disposizione ti fa perdere tempo, ti allontana dall'obiettivo, ma proprio questo rende il gioco speciale e il giocatore una persona migliore.

Il raffinato umorismo di una volta.
In un mondo che brama la meritocrazia, ma allo stesso tempo non ne capisce appieno il senso per chi poi non è meritorio (cioè la maggior parte di noi), Monkey Island regala momenti di felicità sconclusionata nella sua totale incapacità di portarci a primeggiare su tutto e tutti, e con la sua consolatoria e se vogliamo buonista capacità di portarci comunque, sempre e in ogni modo, alla fine, sani e salvi e con il governatore Marley tra le braccia.

Monkey Island è il gioco che spiana la strada ad un mondo di meraviglia proprio perchè ci sprona a sbagliare, a creare situazioni assurde, a provare combinazioni improbabili e quasi sempre infruttuose, ma comunque divertenti e appaganti anche se (e in fondo proprio perché) fini a sè stesse.

Per non parlare dei duelli ad insulti. Ma questa è un'altra storia, che può scrivere qualcun altro.

4 commenti:

  1. Fantastico!
    ...
    Monkey Island!
    Non l'articolo! :)
    Maci

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  2. La mia ragazza ha di recente comprato la versione rimasterizzata in HD per Xbox360: a parte la gustosa possibilità di switchare fra la vecchia grafica e quella ridisegnata, per il resto il gioco è identico all'originale. Non sono un gamer, lo sono stato a mio tempo (che è poi "quel tempo", quello di Monkey Island), ma pilotare il buon Guybrush è ancora oggi un'emozione.
    Come rivedere i Goonies o Ritorno al Futuro: lo senti proprio che hai sotto gli occhi un pezzo di storia, qualcosa che ha segnato un ambito creativo in maniera indelebile.
    Poi non so se sia così magico perché, invischiata a quel cavolo di musichetta midi di sottofondo c'è la eco dell'incoscienza e della totale assenza di pensieri e responsabilità di allora. Ma anche fosse, ciò non toglie a MI il merito di averla catalizzata, come altri giochi non hanno saputo fare.
    Credo proprio che mi attendano alcune serate di mielosa nostalgia, per prima cosa: battere il maestro di spada, rubare in casa del governatore, trovare il tesoro nascosto e bere un bel boccale di Grog (e cioè Cherosene, glicol propilene, dolcificanti artificiali, acido solforico, rum, acetone, colorante rosso n.2, detriti, grasso per motore, acido per la batteria e/o del salame.... Arrrrrr che bontà!).

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  3. La prima (e unica) volta che ho bevuto il grog (dal vivo) è stato a Praga. Speravo mi portassero un boccale fumante pieno di liquami imbevibili, epaticamente devastante, ma alla fine non era altro che acqua calda con qualche liquore, probabilmente rum, come da tradizione marinara (marinara caraibica britannica seicentesca in tempo di guerra di corsa, non di pescatori di canocchie). Che delusione. Un tè corretto. Neanche un po' di retrogusto di catrame.

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